mercoledì 22 aprile 2015

Se sono gli sbarchi ad essere considerati il problema e non le migrazioni

Gli ennesimi eventi luttuosi del Canale di Sicilia e di Rodi riaccendono i riflettori sulla questione delle migrazioni. Lasciando stare le strumentalizzazioni politiche dei Salvini di turno, e anche di chi mentre ancora si contavano i morti pensavano a ciò che diceva o scrivevano i Salvini di turno. Quello che più mi sorprende e atterrisce, al medesimo tempo, è che per molti il problema è la gestione degli sbarchi e non il fatto che migliaia e migliaia di persone siano costrette a lasciare i luoghi d'origine giocandosi tutto, compresa la vita. Dal punto di vista umano e umanitario troppi sembrano non fare caso a questa realtà; e mi riferisco alla società che troppo spesso ama autodefinirsi civile.

Una singola nazione, cioè l'Italia, si trova ad affrontare quasi da sola gli sbarchi in un momento geo-politicamente infernale, e non può farlo efficacemente. Se anche potesse mi atterrisce che non si parli e si ponga l'accento sul perché migrano queste persone. Eritrea, Siria, Libia e Repubblica Centrafricana, in primis, provocano grandi flussi migratori . Guerre civili, sanguinosissime, spietate e non volute da gran parte di quei popoli. Guerre di ricchi e potenti che macellano gente comune. Ricchi e potenti che lasciando macellare persone in carne ed ossa, accrescono la propria ricchezza e il proprio potere. Scappano da ciò di cui abbiamo paura anche noi ma, a differenza loro, non abbiamo mai vissuto.

Sarebbe opportuno che la società, se vuol essere degna dell'appellativo civile, cominciasse ad interessarsi di questo. Cose lontane? Non ci riguardano? Aiutamoli a casa nostra, una "società civile" dovrebbe farlo.

Se si lasciano affogare le persone non si è migliori di chi le decapita.

martedì 7 aprile 2015

La Diaz e quello che rappresenta

La Corte di Strasburgo ha stabilito che nella notte del 21 luglio 2001 la Polizia di Stato praticò tortura a chi stava all'interno della scuola Diaz per dormire durante le manifestazioni al G8 di Genova. Non che ci volesse un giudice a Strasburgo, o altrove, per saperlo.

L'aria di quei giorni, di cui Genova fu l'apice, era aria di caccia al "comunista" (cioè chiunque fosse non berlusconiano). Berlusconi aveva da poco vinto le elezioni per la seconda volta, con l'alleanza catto-fascista insieme ad AN, UdC e Lega Nord. Nelle strade di Genova non c'erano solo persone di sinistra, ed erano milioni di persone. C'erano i cosiddetti black block, una quarantina di persone, a cui le forze dell'ordine non si opposero. Era un'occasione troppo ghiotta per poter giustificare azioni di squadrismo di Stato contro "le zecche" politicamente avverse, o semplicemente critiche. Berlusconi, Fini, Scajola e i vertici delle forze dell'ordine coordinarono l'esecuzione di un disegno per terrorizzare un'intera nazione. C'era voglia di pestare a sangue le voci critiche, non solo a Genova, che ripeto fu solo l'apice. E' una ferita che non può riaprirsi perché non si è mai chiusa. E' la ferita di chi sa che poteva capitare ad ognuno in quegli anni, e a non pochi è capitato. "Don't clean up this blood" scrisse una ragazza nella Diaz, su un pezzo di carta, l'indomani dei fatti. 

Non laveremo via la memoria sanguinolenta di quella tortura e dell'aria di quegli anni, perché anche volendo non ci riusciremmo.